Burning Ghats

Ho riflettuto per tre giorni se condividere o meno questa esperienza,  da allora sono un po’ apatico,  qualcosa si è come spezzato dentro, come un limite oltrepassato senza volerlo, una spinta da dietro mentre sull’orlo dello scoglio più alto hai paura di tuffarti. Condividere per stare meglio, scusate, è parecchio tosta.

Eccola.

Sono seduto all’ombra di qualche albero sparso a pochi metri dalla riva del Gange e solo ora riesco a tenere il telefono tra le due mani senza tremare. Il correttore automatico sta facendo lo straordinario perché sbaglio una parola su tre. Ci sono molte persone attorno, tra loro i miei due fixer, che hanno assistito alla scena con me e dissimulano serenità per controllare le mie reazioni. Gli devo molto.

In realtà oggi pubblicherò e parlerò della festa Holi. Un attimo di respiro, di colore, di amore.

Quando e se pubblicherò mai queste parole, sicuramente non saranno accompagnate dalle immagini che in questo momento sono ben custodite nel silicio delle mie schede sd. Forse non le vedrà mai nessuno, forse si. Per ora ho una nausea persistente e un dolore diffuso soprattutto alle gambe, accompagnato nello stesso tempo da una sorta di senso di vuoto legato al fato, al “chi siamo”, dove andiamo, che senso ha tutto questo, insomma le solite cose da benzodiazrepine occidentali.

Ero appena sceso da una barca di un pescatore con la quale avevamo seguito Alex per i primi chilomtri di navigazione,  sulla riva a un centinaio di metri di distanza ho notato, avvolto da nuvole leggere di sabbia e fumo che danzavano col vento, un folto gruppo di persone, uomini e donne. Per la prima volta ho sentito distintamente una donna piangere forte. Il suo grido è arrivato in un attimo, insieme a un odore che ormai riconosciamo, legna e carne.

Siamo a Palashi, in mezzo alla campagna del West Bengal, lo stato Indiano che fa capo a Calcutta. Su questo stesso prato si è consumata un’aspra battaglia tra indiani e inglesi nel 1757.  Sembra che questa terra sabbiosa non sia mai sazia di corpi umani. Sul Gange si calcolano più di centomila cremazioni all’anno. Ne ho già scritto, in pratica la cremazione di un corpo e la dispersione delle sue ceneri (quando va bene) nelle acque del fiume sacro viene considerata l’unica via per interrompere l’eterna ruota della reincarnazione e portare il caro defunto dritto in paradiso. Quella alla quale mi avvicino cauto sembra diversa questa volta. Le donne partecipano, i “burning men” sono numerosi e completamente ubriachi. Probabilmente la povertà del villaggio a ridosso del Ghat e le lievi differenze culturali tra il Behar, l’Uttar Pradesh e il  West Bengala portano a briciare i corpi con meno legna (costa) e con la partecipazione libera di tutta la comunità. Chiedo a Totem, il mio angelo custode, se possiamo avvicinarci. La risposta immediata è no, troppo pericoloso. Anche questa volta, però, succede qualcosa di inaspettato, al momento giusto. Un ragazzo, maglia blu con delle scritte che ricordano un Valentino Couture, sandali su piedi di corteccia, occhi rossi e pelle ricoperta di cenere, si avvicina dritto, punta me. Io sorrido e passo in anticipo al contrattacco col mio collaudato mezzo inchino Thai e le mani unite protese in avanti. Totem si mette in mezzo per sicurezza e prende le sue per primo. Vuole delle monete, non per elemosina, per collezione: valuta straniera. Mi maledico per essere da così tanto fuori di casa e faccio un rapido check mentale delle mie tasche: oltre a un po’ di sabbia c’è sicuramente un accendino, il burro cacao e vari inutili accessori fotografici. La risolviamo con tante scuse ma questo diventa il gancio per chiedere direttamente a lui se possiamo avvicinarci al grappolo di persone vicino al rogo. Si. Lui conosce tutti.

Avvicinandomi il calore inizia a farsi sentire  già a dieci metri, come le altre due volte nelle quali sono riuscito a testimoniare questo rito, ma qui le urla ubriache dei Dome (la casta autorizzata e dedicata alla cremazione dei cadaveri) mi colpiscono con una forza inaspettata. Brandiscono lunghi bastoni di bamboo. Non avevo immaginato fossero così anziani da lontano. Gli occhi traslucidi, opachi di liquore, fumo, vita passata sul Fiume a bruciare il corpo di chi ha finito il suo cammino terreno. I miei, di occhi,  cercano di proteggersi non solo dal fumo ma soprattutto dalla vista. Lo so che il corpo è lì, su pochi tronchi in fiamme e so in che stato é perché ne intravedo in modo periferico colore e rumore.

Dopo pochi convenevoli mi volto lentamente, una mano già stretta sulla macchina fotografica non per rubare un’immagine ma per tenermi forte. Il corpo è quello di una donna, sembra giovane, si vedono chiaramente i seni carbonizzati e le membra divaricate e ripiegate su loro stesse rivelano il suo sesso. La carne ancora rosa, dentro, appena sfiorata dalle fiamme.

Un’ombra al mio fianco mi parla in perfetto inglese. Sembra uno spot pubblicitario durante un film dell’orrore.

Mi chiede perché sono qui, cosa facciamo, da dove veniamo. Me lo chiedo anch’io tutte le mattine ormai, amico mio… Gli spiego della sensibilizzazione sul tema della pollution dei fiumi.

E lui mi guarda negli occhi, guardiamo insieme il rogo al nostro fianco, il fiume pochi passi sullo sfondo che scorre come niente fosse, come sempre. Mi dice: “Lo so, ma guarda questi uomini anziani, guarda queste fiamme, questa è la mia cultura. Cosa posso farci?”

È questo che più mi rimane dentro, non un cadavere ardente, non il fatto di aver assistito a un rito estremamente vietato agli stranieri e persino agli indiani che non siano della famiglia. Tra poche ore quelle immagini saranno lavate via dai miei occhi (non è vero, le ho ancora con me, nda).

Quello che rimane è lo sguardo triste e insieme fiero di questo laureato di nemmeno trent’anni e, alle sue spalle, ciò che lo compendia, lo annulla: i Dome, alimentati a fuoco etilico, fanno a gara a chi col proprio bastone di bambù, verdissimo sotto le mani e nero all’estremità, riesce per primo a fracassare ciò che resta di una vita fino a vederne uscire gli intestini, gonfiarsi come una membrana di sapone lattiginoso e scoppiare senza un rumore. Il vento, come l’acqua, porta via le urla di giubilo del battitore vittorioso. E poi porta via anche un po’ di me.

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