Clark Kent arriva a Doha

È un po’ lunga vi avverto. Ma questo è, chissenefrega, c’è bisogno di autoterapia da polpastrelli su tasti.

È che volevo scrivere dei due giorni tra Saidpur e Ghazipur, di quello che mi è passato davanti agli occhi e dentro il cuore, delle notti nel nulla, dei chilometri sul fiume tra tribù familiari isolate e cani timidi che sbranano carcasse di buoi. Poi però mi sono trovato ancora in aeroporto, stanco e di corsa, in un mondo opposto, Doha, Qatar.

Allora ho detto, devo scrivere di questo contrasto. Poi ho detto, non ha senso.

Dalla stanza 4911 al quarantanovesimo piano dell’ Intercontinental cosa posso vedere di obiettivo se non un deserto di idee? Cosa c’entra col Gange? Che scissione interiore, che stacco da elettroshock, che dubbi. Cosa ci faccio qui? Devo fare outing? Frega a qualcuno? Forse no, per questo lo faccio, tanto sono tutti catalani e mica leggono il blog di un fotografo puzzolente e vestito di nero.

Ecco il primo spunto, arrivo quindi a Doha con un viaggio dell’assurdo che mi porta dal Bihar, uno degli stati più poveri e disastrati dell’India, al Qatar, scintillante nulla nel deserto arabo, e subito mi cambio d’abito. Come un Clark Kent, un trasformista da balera social, mi infilo nei miei jeans skinny neri e tee shirt anche nera, con un quasi invisibile lettering lucido su opaco che mostra, solo sotto una luce radente, una scritta “Smile”. Comprata a Tokyo, due anni fa credo, 40 euro. Molto cool. Mi sento a casa nei miei abiti istituzionali, questi scudi immaginari. Beh, sempre meglio di Hogan e Dolce&Gabbana scritto grande, comunque eh. Prendo un sacco di cotone dal tecnicissimo trolley Alpinestar, ufficiale MotoGP, e ne tiro fuori pantaloni militari imbrattati di feci e terra, due camicie con taschini pieni di polvere, biancheria intima. Mi consolo pensando che forse quest’ultima è la cosa più pulita dell’intero lotto, anche se usata. Laverò tutto a Bangkok, prossima tappa, la mia vecchia casa, c’è una laundry in un sub-soi tra il 20 e il 22 che non chiede nemmeno cosa ci sia nel sacco. Lo pesa, miagola numeri a tre cifre, paghi e il giorno dopo ritiri pulito e stirato. Per ora però sigillo tutto in questo sciccosissimo sacchetto Intercontinental, magari la vista ingannerà l’olfatto. 

Ho lasciato il Bellini e le nostre due guide in India, a vedersela con Mama Gange, il lavoro mi chiama. Proverò a rintracciarli tra dieci giorni, più a sud, sopra Calcutta.

Alex mi ha detto che sembravo troppo magro gli ultimi giorni, cerco il modo di accendere la futuristica luce a scomparsa del bagno, entro cauto in questo spazio minimale con doccia a cristallo e rubinetterie grohe, vasca e gabinetto separato. Credo sia identico a quello dell’anno scorso, o di due anni fa, qualche piano più in alto o più in basso, poco importa, loculi di lusso per vite di tre giorni. Sono le cinque e quaranta del mattino, entro nudo con un leggero rumore di pelle dei piedi sul grès rettificato grigio antracite del pavimento e salgo sulla bilancia digitale trasparente. Ho perso quattro chili in dieci giorni. 

Mi stendo su un letto double king, c’è il menù dei cuscini sul comodino e domani ne ordinerò uno più duro e spesso. Riesco comunque a dormire ancora qualche ora, mi sembra di perdere i sensi e sprofondare in un limbo indiano. A tarda mattina slavino giù di 46 piani verso la colazione dei campioni e davanti a pane imburrato, beacon di tacchino, due white scramble eggs, frutta, yogurt e due muffin al mirtillo fatti in casa mi dico, ma vaffanculo l’india, la guerra, la fame e pure l’inquinamento, sono il fotografo di Honda, Marc Marquez e Jorge Lorenzo, BRUUUMMM BRUUUUMMM, sono vecchio e ora me la godo come gli altri, e mi pagano pure, incredibile.

Arriva l’outing, attenzione. 

Andiamo in circuito con la nostra flotta imperiale Hertz, entro nel paddock e mi assale la solita sensazione, questa volta pimpata anche dalla follia schizofrenica; poche ore fa navigavo sul Gange tra pire di cadaveri, villaggi rurali, plastica e bellezza assoluta e ora tutti mi salutano, perché è il primo giorno di scuola, e “Come sono andate le vacanze? Que tal tío!?”. Sorrido malissimo e mi fiondo in ufficio per il terzo caffè, non devo avere una bellissima cera. É un tema complesso, magari ne scriverò un giorno, ma il concetto è che qui è tutto sotto steroidi.

Siete mai stati un un Paddock della MotoGP? Ve lo descrivo brevemente. È uno dei luoghi sogno per milioni di persone, un paradiso di moto e figa a ingresso riservatissimo. Ha del fascino, eh, è vero. Ci sono i camion coloratissimi e lucidi, le Hospitality, il VipVillage, tutto è sponsorizzato, grande, sorridente, aggressivo, racing. Tutti hanno qualcosa da fare, siamo un circo da più di cinquecento persone che si spostano da un gran premio all’altro portando in giro questo spettacolo, venghino signori, venghino! Gli uomini hanno le gambe depilate, tanti muscoli e polo ufficiali del team di appartenenza che, a seconda dell’importanza, li pone più o meno in alto nella piramide delle caste motomondiali. Io ne ho due potentissime, di polo. Tié. Le donne non so se siano a loro volta depilate ma lavorano sodo e spesso sono molto brave. Non è facile, ve lo assicuro, in questo mondo. Le ragazze-ombrello, chiamate miseramente Ombrelline, invece, arrivano il Sabato, ed è qui che inizia il bello. Luccicano già a duecento metri di distanza, tutine di lycra, leggings di pelle, tette altezza mento, capelli boccolo e avanti e indietro tutto il giorno a fare le vasche. Come tricotteri, i più grandi fotografi del mondo escono dai loro container pompati ad aria condizionata e inizia il safari, la caccia grossa in attesa delle moto in pista. Creano, spesso con obiettivi dal 200mm in a 12 esposizioni al secondo, questi bellissimi ritratti. Miss Ombrellina. 

Non voglio criticare, giuro, davvero è un momento anche bellissimo, io guardo. Sul serio, guardo la scena, il fotografo super tecnico e l’ombrellina in posa in mezzo ai camion. È educativo, giuro. Questi trenta fotografi sono i migliori fotografi di motorsport al mondo, ce ne sono parecchi che lo fanno da vent’anni. Vent’anni, proprio questo, sempre questo, giovedì – domenica. Ma iniziano le prove in pista. Si accendono nei box fuochi di benzina a 120 ottani compressa dentro camere di combustione con alesaggio e corsa generato e non creato dalla stessa sostanza del Padre Ingegnere. Mi metto i tappi e salgo sul motorino. Ho addosso tanti di quei chili di obiettivo che le mie braccine indiane scricchiolano e fanno piuttosto ridere i miei colleghi grossissimi. L’aria si riempie di un rumore profondo, rabbioso e  continuo, che dopo qualche anno non senti neanche più, ti avvolge, ti scalda e sa di denaro frusciante. Da lì in poi non si parla più,  tanto non si sente un caz*o, quanto meno i miei dubbi su cosa è “giusto” fare, che compromessi accettare e ricordarsi di essere felici per la fortuna immensa. E quanti bravissimi fotografi pagherebbero di tasca loro per testare le loro super macchine fotografiche inseguendo questi proiettili colorati su un nastro di asfalto. Passa Valentino, non lo fotografo nemmeno, ecco Marquez.

Mi manca l’India, mi manca ogni scatto, ogni frame girato, i miei fixer, mi manca Alex e mi manca anche Casa. Rimetto in moto verso la prossima curva ma devo infilare un dito pulitissimo sotto gli Oackley specchiati, rallento un attimo, mi asciugo una lacrima, il circo continua, venghino ‘siori venghino. 

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