Day 2 – Kiev

Day 2 – Kiev

 

Sarà a causa delle casse inglobate nel legno di abete di questo piccolo bar sotto l’ostello, ma penso a Berlino, questa robaccia minimale comincia a farmi pensare alle distanze incolmabili tra est e ovest.
E penso alla mia Budapest, al guardare con occhi rossi di speranza qualcuno parlare al telefono per te, in una lingua che non è tua, nella quale cerchi parole che possano farti capire che sei sulla strada giusta.
E quindi ci muoviamo al mattino tardo, col sole velato e le spalle ricurve sotto il peso di inutile attrezzatura tecnica. Quello che ci aspetta non trova trova confronto con ciò che ho visto finora. La nostra fixer Oksana – sguardo perso nella storia e nel futuro di un lavoro appena perso – ci porta a Maidan. La piazza dove solo qualche settimana fa è realmente accaduto qualcosa di incomprensibile come questo.
Siamo in ritardo, come sempre, a febbraio c’erano meno venticinque gradi Celsius, la gente ha vissuto tre mesi in questo inferno tenendo salda la roccaforte. Qualcosa che per noi non ha senso. E oggi, intorno, una città da quattro milioni di abitanti, i ristoranti aperti, Zara, la metropolitana quaranta metri sotto terra. Tutto qui sembra tranquillo, ma mi trovo ad attraversare ancora un chilometro di tende militari, muri di pneumatici e rifiuti, mattoni e barili infuocati. Sembra il Check Point Charlie berlinese, ricostruzione di un passaggio tra estovest prima del ‘novanta. Questa è una fiera della guerra. Ogni venti metri una tenda coi rivoluzionari in mimetica che scaldano il Borsc si fanno fotografare coi coltelli in mano. Sembra tutto finto, sembra un set cinematografico. Pensi: “ma che cazzata, siamo al circo”.
Ci sono homeless in cerca di cibo, ragazzini ingrifati per avere le mutande a contatto con del tessuto camouflage, che quest’anno va anche di moda. Sono fighi, in effetti. Poi però apri le narici e senti ancora l’odore di bruciato, le candele accese per i 100 morti di pochi giorni fa. Ed è lì che capisci che non è finto, è semplicemente normale per loro. Ora sono calmi, la gente cammina in mezzo a loro per andare a fare la spesa, ma sono pronti: armed and ready. Se i Russi pressano il confine est, questi ricominciano da capo. Inferno lungo un chilometro, in mezzo alla città. Come se da Porta Nuova a piazza Castello stessero girando Mad Max con la scenografia di Apocalypse Now. Smetto di fotografare, mi accendo una sigaretta e incontro Andrey, di Lviv. Ha una croce rossa dipinta sulla giacca a vento grigia, sembra sangue ma segnala che in realtà lui dovrebbe aiutare in caso si spargesse.

Alle sette scappiamo, c’è Vera, ucraina di origine russa, giornalista politica che ci aspetta. Mi apre la mente. Chiedo della Crimea: chissenefrega della Crimea. La Crimea è il giardino estivo dei russi, è sempre stato così. Vive 3 mesi all’anno di turismo e poi chiede soldi a Kiev, è bloccata nel passato. Non vuole saperne dell’Ucraina, peccato per le minoranze etniche che la stanno lasciando in panico.
Il problema è completamente diverso da quello che avevo immaginato. Non è vero che se parli russo sei pro-russians, se parli ucraino sei contro. Non è vero che se sei ricco sei pro-russians se sei povero sei contro. Qui a distanza di 200 chilometri parlano 3 lingue diverse. Tutti sanno il russo. Tutto sono ucraini. Il gas non c’entra nulla. Si parla semplicemente di una “russian influence”. Putin, attraverso la Crimea che è il suo passaggio privilegiato, vuole semplicemente premere ancora su questa terra di confine. Essere presente, come lo è stato prima della rivoluzione in una terra che è sempre stata un cuscinetto tra l’Europa e la terra “URSS”.
E la storia si ripete, come in Polonia, Ungheria, Bielorussia, Transistria, Georgia. Chi ha ragione? Non ne ho idea perché sono ignorante come una capra dei Carpazi ma domani prendo la metro e vado in periferia. Poi forse raggiungo Stefano a Maidan e alla sera Vera (le ho rotto le balle per 3 ore) ci fa entrare in un loungebar dove ragazze con le labbra gonfie e ciccioni coi SUV sono infastiditi perché forse le prossime detonazioni di palazzi incendiati rovesceranno qualche goccia di “bollicine” sulle loro Gucci.

E poi venerdì partiamo, decisione folle dopo giorni di dubbi. Dirigeremo verso ovest, fino quasi al confine moldavo per poi tagliare tutta la regione in orizzontale verso est, verso Donetsk, dove senti gli echi di Shostakovich e l’acqua sa di vodka.
Cercherò di campionare ogni singola sfumatura di grigio, dal grigio ucraino al grigio russo. Forse qualche colore in mezzo, come l’unico che ho visto oggi, il fuoco della legna, caldo, sommesso, pericoloso, amico.

 

 

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