Day 13-14 : Il Mar Nero color Rosso.

Day 13-14 : Il Mar Nero color Rosso.

Donetsk è pericolosa e lo percepiamo nel momento in cui ci avviciniamo alla sua periferia.
È buia, enorme, triste.
Lo skyline della città è uno dei più strambi che abbia mai visto: un alternarsi su e giù di grattacieli sovietici e comignoli di fabbriche. Carbone, questo è il petrolio della Dallas Ucraina.
Da nessuna altra parte si può trovare un divario simile tra ricchi e poveri, tra boutique alla moda e periferie alimentate a vodka. Yanucovich è nato qui. I grandi alberghi degli oligarchi, dei mafiosi legati al potere e alla grande industria corrotta.
La mattina è fredda, la casa dove mi sveglio è da denunciare al WWF. Mi giro nel letto, Stefano dorme a sette centimetri da me, dall’altra parte, a pochi respiri dal mio naso c’è un muro tappezzato male. Tossisco, sputo un gatto Angora d.o.p.
In piazza Lenin (che fantasia) c’è la statua di Lenin (che fantasia).
Ma questa volta, a differenza di Kharkiv, c’è anche tanta gente, e particolarmente incazzata. Che siamo pagati o no, sono tanti. Le bandiere che sventolano dalle macchine in stile matrimonio non sono filorusse, sono Russe. Tricolore orizzontale bianco blu rosso.
Oggi c’è la più grande manifestazione prorussia dopo gli scontri a morte di un mese fa. C’è un palco, la musica passa da roba power metal a folk sovietico e io non capisco più chi e cosa sono i fasci e i comu.
Fatto sta che mi giro e Cristina, la nostra fixer di Kiev, piange. Sente cosa dicono a turno dal palco e piange. “Sputano sul mio paese, sul loro paese, sul nostro paese. Siamo in Ucraiana! Vogliono essere Russi? Benissimo, il confine è qui dietro.”
La consolo con un pranzo da MacDonald’s.
Parte un corteo armato di bastoni e striscioni, direzione palazzo della città. Camminiamo di fronte a tutti e facciamo foto sorridendo al sole, giusto per far capire che non siamo per nulla filo-ucraini ma che facciamo il nostro dovere.
Ad attenderci sotto la “dom” del sindaco c’è un muro di metallo, sono gli scudi della polizia. Anche qui, vai a capire se sono russi, ucraini, russi pro-ucraini o ucraini filo-russi. Non si capisce più nulla. Io sto paese non lo capisco più, ma non capisco più il mondo in generale. Comunque fanno tanta paura e basta. Dopo venti minuti se ne vanno a bere.
Io inizio il mio lavoro che mi da molta più soddisfazione che fotografare quattro dementi e mi infilo in una serie di alberghi assurdi tra cui uno in particolare, il Liverpool Hotel, che attende gli ospiti con una guardia armata enorme all’ingresso. Il bello è che se si spostano gli occhi oltre le sue spalle da tatanka si vedono le quattro statue dorate dei Beatles in bella mostra nell’atrio. Stridente, a dir poco. Tutto mi è più chiaro quando uscendo, leggo scritto enorme su un muro “The war is Over”. Già.
Questa città mi sta già sulle balle, mi girano del tutto quando aspetto venti minuti in un negozio alla moda per fare delle fotografie. Ci offrono un the buonissimo con zenzero e cannella per poi dirci “Niet”. Ah, grazie.
Nella disperazione trovo la luce. Nell’ultimo hotel, entro e mi sembra di aver perso i sensi come di fronte alla Spaccanapoli sul tagliere dopo la partita di calcetto.
Ci saranno una dozzina di ragazze giovanissime, truccatissime, coloratissime che in una stanzetta della hall si stanno cambiando.
Non aspetto nemmeno che la responsabile mi dica “sì” o “no” e sono già dentro urlando come un Unno indicazioni alle poverelle, che divertite, ci deliziano con uno shooting fashion russian popular che quando torno mi aspetto un contratto di Vice sulla scrivania.
Il tono continua sul tema dell’assurdo perché alla sera, non chiedeteci perché, ci ritroviamo sotto casa in un Hotel-Restaurant-Karaoke-NarghilèBar vuoto, gestito da Giordani, con dei divani tappezzato di assurdo, le tende pesanti legate coi cordoni d’oro e un silenzio assordante.
In quattro minuti ci mettono due microfoni in mano e dobbiamo cantare Toto Cutugno.
E ancora mentre canto “Sono un italiano vero” guardando uno schermo coi sottotitoli sopra le immagini di donne californiane in bikini mi chiedo il perché. Davvero devo capire perché l’Italia sia riuscita a fare tutto ciò. Che a volte anche è utile, davvero. Voglio ringraziare pubblicamente Cutugno, Tozzi e Peppino di Capri.
Davvero, siamo i numeri uno. Almeno siamo riconoscibili. Certo che essere anche preso sul serio è un’altra cosa, ma almeno stiamo simpatici. Gli americani hanno Jurassic Park e Micheal Jordan ma se la passano peggio.
Parlano con la gente comune, anche in questi paesi ex sovietici, l’unica cosa che mi commuove riguardo alla nostra influenza culturale nel mondo è che a contrapporre l’armata musicale c’è il battaglione del cinema. E tutti conoscono Fellini, Antonioni, Leone e Antonioni. E io piango.
Rimane il fatto che vorrei sapere Cutugno quando becca di diritti d’autore all’anno da tutto il mondo. Giuro, è incredibile. Pensiamoci.
Spesso ho sognato di partire con un camper, dall’Italia, per andare a vedere “se il Mar Nero è davvero nero”. Se mai avessi avuto un figlio sarebbe stata una di quelle cose che mi sarebbe piaciuto proporre, a caso, un giovedì sera: “Senti, ma che ne dici se carichiamo il camper stanotte e andiamo con la mamma a vedere il Mar Nero? Secondo te è nero davvero?” Ho provato anche a far colpo con qualche ragazza negli ultimi anni con questa storia, risultati scarsissimi. E meno male, perché col sole allo zenith ho davvero visto per la prima volta il Mar Nero in vita mia, oggi, e non è nero, è marroncino.
Un urlo dai polmoni affumicati quanto è spuntato da una curva.
Immenso e salatissimo, abbiamo comperato formaggio, salame e uova di quaglia e ci siamo buttati su una spiaggia a meno ventisettemila gradi celsius per mangiarci di fronte.
Gli altri commensali, sulle sponde, a cerchio, sono di tutto rispetto. Moldavia, Romania, Bulgaria, Turchia, Georgia e Russia. Cercherò di comportarmi bene e di non fare battute saccenti, berrò poco e terrò i gomiti bene sul bordo del tavolo.
Intanto un soldato ucraino pattuglia il bagnasciuga, cerca conchiglie e avvista sbarchi di profughi o torpediniere russe all’orizzonte.
E poi il senso di quello che stiamo facendo ci assale, dovremmo fermarci a Melitopol per dormire, domani dobbiamo essere a Odessa, ma il confine con la Crimea è lì dietro l’angolo.
Tiriamo a sud, entriamo in un nulla piatto di una bellezza disarmante, non ci sono auto, le volpi attraversano la strada e il sole è una palla di fuoco che mitraglia il mare di barbagli da occidente.
Due elicotteri dell’esercito Ucraino sorvolano alla nostra destra a circa otto metri da terra. La sensazione è forte, un tubo del gas spunta e si rituffa nella terra come un vermone di Dune.
Troviamo da dormire a Henichesk, una fonte termale sul mare, un avamposto a trenta chilometri dal nuovo confine. Ci sono segni evidenti di tensione, giornalisti, un cane che abbaia.
Faccio una doccia allo zolfo sperando che mi stiri le sei occhiaie che mi porto dietro, la sveglia di domani tra poche ore, partiremo prestissimo. Vogliamo la luce perfetta e la possibilità di avvicinarci il più possibile a quello che la gente ha visto passare di qui ieri: cinquanta carro armati ucraini in movimentazione verso sud. Risiko, tiro i dadi.
Poi ci sarà Odessa, i suoi lungomari, la pace dei marcati di contrabbando e un treno notturno per riportarmi all’amata Kiev, all’aeroporto, il dutyfree e le bilance per i bagagli.
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