Happy Holi

Calcutta mi abbraccia di notte, in un pulviscolo di zanzare e fusi orari al contrario. Esco dall’aeroporto e al posto di chiamare il lussuoso albergo, dove sverrò  qualche ora prima di viaggiare verso nord a ritrovare Alex e i ragazzi, e farmi mandare una navetta, decido di prendere un Paid Taxi. Ufficiale. Attraverso un buco in un vetro non più trasparente, jn piedi davanti al gabbiotto sbraito più volte HOTEEEELLL, SWISSSSOTEEEL. Dentro c’è un ragazzo, un computer, un router con le antenne su, due radio sintonizzate su due stazioni diverse e una luce a fluoruro atomico color verde blu. Fuori oltre a me le regolari cinque o sei persone che mi spingono in rigoroso silenzio da dietro. 

Mi dicono che il numero del mio taxi è il 6342, trascino i miei cadaveri su rotelle e mi dirigo verso il marciapiede. Una fila di meravigliosi oggetti metallici su quattro ruote con uno stile retrò giallo fiamma niente male attendono parcheggiati. Uno in particolare attrae la mia attenzione, sembra una di quelle macchinine che avevo da piccolo: avevano una portiera che se veniva urtata girava su se stessa di scatto mostrando un lato ammaccato come dopo un bell’ incidente. É il mio. 

Il tassista mi sorride e chiede subito indicazione a due colleghi su dove sia questo strano hotel a ben 1,8 chilometri dall’aeroporto. Apre il baule posteriore e una nuvoletta di fumo nero esce fuori come lo sbuffo di una pipa. Nell’oscurità dell’antro mi pare di riconoscere una ruota di scorta grigio su grigio. Ci buttiamo dentro il trolley grande ma lo zaino fotografico lo porto con me sui sedili posteriori. 

Appena seduto un insieme di rumori, scossoni, sensazioni tattili sono esattamente identici all’ottovolante di Gardaland. Senza cintura però. Partiamo con un coro di scoppiettii e cigolamenti, niente da fare, un sorriso mi si stampa in faccia e inizio a fare il cretino. 

Provo a tirare giù il finestrino per fare delle storieeeeees utili al successo dei miei potenti social network senza successo. Poi ci riesco ma mi rimane la maniglia in mano, il tassista fa il suo dovere karmico: non una piega. Mi prude tantissimo la schiena a contatto con quel qualcosa chiamato sedili posteriori in sky e grasso e cerco di avvicinarla più che posso al vento caldo e umido di Kolkata, Bengala, India.

Il mattino passa con un computer sulle gambe e sei ore di auto direzione nord, sono felice di ritrovare Alex, Totem e Buri. 

Mi aspettano in un villaggio abbastanza grande dove trascorreremo  due notti in un Palazzo Reale dell’800 (giuro) convertito in albergo assolutamente vuoto (giuro).

Il motivo della sosta é il Festival Holi, che tutto il mondo conosce a casa propria col nome di Color Run. Qui é una delle feste più importanti dell’anno e non ci fermiamo per divertimento ma perché i pescatori e i barcaroli così utili per noi ogni giorno sono sostanzialmente irreperibili.  Non voglio stare qui a spiegare cosa sia la Holi e nemmeno andare a leggere su Wiki quale dio abbia ucciso chi o cosa e si sia messo a giocare col suo sangue e come poi la cultura abbia tramandato questo gesto con l’utilizzo di coloratissime polveri ricavate da petali di fiore. Voglio solo portare con me il ricordo di un giorno finalmente ampio, coloratissimo, festoso e pieno di bimbi per strada. In realtà alla mattina ore 6 ho fatto una passeggiata su una discarica alta 25 metri in autocombustione, ma ne parleremo un’altra volta. Nel Holi non si “tirano i colori”, si “donano”. Mi sono preparato come un aranciere eporediese (e per la mia macchina fotografica ho fatto più che bene) non sapevo cosa aspettarmi. Prendiamo un tuk tuk per girare il villaggio e tutta la tensione da cataclismi rave, che già di mio patisco parecchio, si trasforma in un senso di amore globale. Chiunque si avvicina e con grande delicatezza mi dice, con un filo di voce, “Happy Holi”. La mano estranea pesca un pizzico di polvere, sale lentamente verso il mio viso e il gesto tanto atteso non è nient’altro che una lenta, amorevole carezza. 

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