Saidpur

Disclaimer: questo post fa un po’ schifo, se siete sensibili ci sentiamo alla prossima.

Scrivo queste parole con la lampada frontale di decathlon a intensità media fissata in testa, un faro notturno di aiuto per le decine di piccole e  lente zanzare che sorvolano la mia debole  pelle occidentale dopata al Malarone. Sono sdraiato su un letto durissimo nella VIP Guest House del commissariato di polizia di Saidpur, circa cinquanta km a nord est di Varanasi. Descrivere con la solita cinica ironia e melanconico minimalismo, che  mi annovera tra i più grandi scrittori degli anni zero, non mi viene facile, in questo momento. Penso di dover procedere al rovescio.

Intanto no, non ci hanno arrestato, non ancora. Siamo fermi qui perché oggi Alex ha remato contro un Gange parecchio incazzato, abbiamo preso pioggia e vento contrari, facevo fatica io a motore immagino lui a remi di bambù. 

Fuori gradina – si, anche in India grandina – c’è un la ferrovia con data di nascita inglese a pochi metri dal mio muro di sinistra, un solerte operaio nel cortile alla mia destra che non molla il martello pneumatico e la corrente salta ogni cinque minuti. Ci hanno chiuso dentro per sicurezza, se scoppia la bombola del gas della cucina da Master Chef siamo morti dentro un cubo di cemento indiano. Partiamo dal fatto che non sono per niente schizzinoso e credo di essermi adattato a tutto (di materiale) nella vita, ma qui il bagno è un capolavoro che va descritto. Vi si accede da un disimpegno  che viene voglia di percorrere velocemente senza guardare per poi entrare con sospetto in una stanza buia piastrellata  con del blu oltremare inquinato. Dalle pareti  fuoriescono dei tubi arrugginiti, storti come sottili tentacoli di piovra, che servono poca acqua a un lavandino completamente ricoperto di polvere e un wc che è il fratello di quello di trainspotting, ho già paura che ci cadrò dentro. Poi c’è una turca. L’odore è travolgente, il mio letto dista pochi metri. Ho un problema personale che non posso nascondervi, sono due giorni che non vado in bagno, comunque meglio del contrario, ne sono cosciente. Mi accovaccio con la lampada frontale che evidenzia con movimenti veloci i minimi dettagli delle incrostazioni, perdite gialle, ceramiche umide e striste come nel miglior Blair Witch Project in salsa Bollywood. Cerco di essere veloce, chiudo gli occhi. Quando li riapro ho la testa leggermente inclinata in avanti e il fascio di luce al led illumina il pavimento pochi centimetri davanti a me, dove un paio di blatte color mattone si muovono a scatti esoscheletrici verso i mie

Bene.

Poi c’è il fiume sacro, i capelli di Shiva, che accoglie tutto questo, lo abbraccia, lo lava, fa scorrere tutto via dagli occhi. Navigando per chilometri ho di una vista infinita senza nemmeno un traliccio elettrico si due orizzonti. Piccole isole sabbiose coltivate ordinatamente a orto, pescatori sulle poppe delle loro imbarcazioni di legno con le vesti e le reti a volare nel leggero vento da est. Anche in questo nulla di acqua e terra c’è il miscuglio che è il cuore di questo progetto. Mi arrampico su relitti metallici di ponti in costruzione che baciano feci e plastica sulle rive, mentre canti religiosi giungono da ogni dove, da tutto intorno, sempre. Sembra siano gli alberi, lontanissimi superstiti a tutto questo, a soffiare la loro preghiera a dio. 

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