Contatto con Juba, prima missione già annullata

Juba 13 Febbraio

Mi hanno dato una stanza nella guesthouse UN “Nimule”, a Juba. É al primo piano, angolare, c’è un ingresso con due divani e un tavolo di legno. Un lampadario a luce fredda, sbarre alle finestre. La zanzariera sul letto mi ricorda di prendere ogni mattina il Malarone. Quattro su sette persone del team col quale lavorerò hanno preso la malaria. Una l’ha presa due volte. Ma tranquillo, non è come quella asiatica, rischi di morire, ma se guarisci non lascia molte tracce. Ah, ok.
Il trasferimento dall’aeroporto a qui è stato breve, per “breve” intendo tipo sette minuti. Ma sono bastati per trovarmi a sobbalzare su buche grandi come voragini, una strada sterrata che si fa spazio tra strutture di lamiera, bambini “street kids” con la bottiglia di colla attaccata alla bocca e polvere.
Ho visto l’India, ho vissuto in Asia, ma questo è diverso.
E non commento oltre. Tanto queste sono solo parole per me, per le mie memorie di quando tra pochi anni avrà un plaid sulle ginocchia davanti a un caminetto e cercherò nella mia memoria a forma di emmental qualche ricordo.

Entro in stanza, in questa guesthouse ci sono circa 15 persone. Tutti sotto il capello UN, mi travolge la totale varietà di etnie, colori, provenienze e storie.
C’è Gaia, italiana, head del team ECRP e mia amica fraterna da Bangkok, c’è Piper (Oklahoma), Ruhani (Sri Lanka cresciuta a Orlando, Florida), Mohamed (Ruanda, nato in Olanda, cresciuto a Londra, laureato a Oxford), Mary (New Jersey), Emma (Madrid), Margaret (China, Canada) e altri che è un continuo “Hey man, what happened with your flight? (Si, è una storia lunga ma assurda nella quale dovevo partire un giorno prima, ma mi hanno preso un biglietto un po’ ”fake” e a Malpensa mi hanno rimbalzato malamente. Sono partito il giorno dopo e tutti qui se la sono risa).

Ho caldo, ma come sempre non sudo, porto al primo piano i miei seicento chili di attrezzatura inutile, aiutato da Simon e Adam, i due tuttofare della guesthouse, e entro.
Sono così confuso che non trovo nemmeno l’interruttore della luce. Ci saranno quaranta gradi qua dentro.
Ai piedi del letto vedo un grosso sacco nero, c’è una scritta “Property of UN”.
Lo apro, in genere in albergo trovo i cioccolatini sul cuscino come omaggio, qui invece tiro fuori una roba pesante e blu. A forma di casco. No, aspetta, è proprio un casco, anzi, un elmetto. Un elmetto blu. E sotto c’è un gilet blu coordinato, taglia XL. Provo a estrarlo dal sacco, che strano, è piuttosto pesante. E’ anche parecchio rigido e imbottito di lastre di metallo. Ah, bene: casco e giubbotto antiproiettile omaggio della casa.

E da qui è un saliscendi di crisi e speranze. Sono bloccato qui, non posso uscire. Per Juba non si può camminare da soli con una macchina fotografica, è il regolamento UN, troppo pericoloso. Mi permettono un’uscita al giorno, Gaia guida una jeep Toyota da sola ed è identica a Sarah Connor in Terminator 2. Ma poi alle sette c’è il coprifuoco. Si torna alla Nimule, io non posso fotografare nulla per strada, solo poca roba rubata dal finestrino. Guardare fuori è come una pellicola di un film surreale, pick up sulle strade sterrate con gente in piedi nel cassone posteriore che guarda lontano, forse armata. Bambini scalzi, moto, ancora polvere. Andiamo in un supermercato dentro una base militare, ci sono le Gocciole. E il Panettone.

La sensazione di continua ansia mi assale, è un rumore di fondo presente, la sicurezza non è nelle tue mani. Saremmo dovuti partire per la prima missione domani, destinazione Pariang . Andiamo a prendere un caffè in uno dei pochi “hotel” che hanno un bar un po’ “expat” e Incontriamo una collega che ci chiede dove siamo diretti il giorno dopo, dopo averle detto Pariang, ci fa: “ Eh, ottimo, si stanno ammazzando, “it’s blowing”. Good Luck!”
Pensiamo sia una gufata clamorosa, io continuo a scacciare i pensieri ossessivi che “tanto sta andando tutto male”. Purtroppo dopo un rapido check con la Head of Security ci confermano che è vero. Meglio attendere sviluppi nella zona. Oggi, di buon mattino, con un caffè in mano veniamo a sapere che si sono ammazzati in 27. Giovanissimi, armati di Ak 47, si sono uccisi tra loro per faide tribali, per vendetta, per qualche capo di bestiame. Tra le vittime anche il nostro referente del villaggio.

E’ così. L’ucraina nel 2014 era diversa, nella mia piccolissima esperienza potevo presagire, capire, anticipare. Qui è un fiammifero a pochi millimetri da una fiamma. Magari rimane così per mesi, magari per secondi.
Va bene, la prima missione “on field” è rimandata e cerchiamo di organizzarne un’altra in una zona differente. Devo coprirne dieci, non riesco a iniziare nemmeno la prima.
Sono bloccato, un po’ teso, voglio iniziare ma ho anche voglia di tornare a casa il prima possibile. Il sole cala nella foschia latte arancione e ci mette tantissimo tempo. Rimane lì sospeso a pochi passi dall’orizzonte fatto di tetti e lamiere lucenti della periferia di Juba. Ti fa credere che la luce duri ancora molto. Poi di colpo cala, ti dice addio, scende l’oscurità, il filo spinato che ci protegge vibra sui primi fiati di vento notturno. Si spera nel giorno dopo, si spera di iniziare. In qualche modo.

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