South Sudan – Missione ONU

Gli ultimi 70 metri prima del gate F7, Terminal 2, aeroporto di Dubai, imbarco per per Juba li faccio correndo a perdifiato. Il mac sotto il braccio, la cintura dei pantaloni in mano e la giacca nell’altra. F7 eccolo, oddio è aperto… La confidenza di viaggiare troppo spesso ti fa abbassare il livello di attenzione. Il terminal 2, era sperduto nel deserto, lontanissimo dal Terminal 1, dove sorseggiavo un tè in attesa che il mio volo comparisse sullo schermo. Chiedo aiuto a un desk come un ragazzino in gita per Londra, mi lanciano al volo su due bus per raggiungerlo. Sul secondo sembro ormai tarantolato; guardo continuamente l’orologio, tre minuti alla chiusura dell’imbarco. Posso farcela. Addosso una sensazione di rilassamento da burro fuso. È forse qui che ho il mio primo momento di vera adrenalina e quando inizio a guardarmi intorno, capisco che la tribù europea salita a bordo del doppio-piano 380 a Milano Malpensa, destinata ai grattacieli di shopping di Dubai, si è dissolta, l’ho persa per strada. Qui siamo sparsi e tutti diversi. Ci sono arabi, pochi, i primi veri Sud Sudanesi che vedo in vita mia , li riconosco perché sono così alti che si tengono alle maniglie che pendono dal tetto del mezzo come se tendessero la mano a un amico di scuola. Stessa altezza. Ci sono due suore con la tunica carta da zucchero e il velo grigio. Una ha gli occhiali spessi e lo sguardo dolce. Guardo fuori, i riflessi sui vetri creano un caleidoscopio tridimensionale: quello che c’è fuori in parallasse con questo piccolo vettore ancora ridondante dei respiri affannati della mia corsa.

Volo e dormo ancora, sembra che nemmeno il dolore alla mia scheletrica chiappa destra riesca a tenermi sveglio. Apro gli occhi gonfi e stiamo già perdendo quota. Quella che vedo sotto di me è una spruzzata di tetti riflettenti un sole Sudanese. Baracche, lamiere sparse, la pista di atterraggio.

Tocco terra e chiudo per un attimo gli occhi, lo faccio sempre, per rispetto, quando tocco terra straniera.

Cosa sono venuto a fare in uno dei paesi più poveri del mondo lacerato da infinite guerre fratricide?

Sono qui con un progetto dell’ONU. Si chiama ECRP. Sono un UN Staff da poche settimane, la storia è lunga ed è poco importante. L’importanza è che io sia riuscito a far parte di un qualcosa di grande che sogno da molto tempo. Starò circa due settimane, in missione ufficiale per due contee del paese. Cercherò di ritrarne le anime e le luci, intervisterò staff UN e popolazione civile.

Mi avevano istruito, oltre a come scappare da un campo minato, anche come uscire indenni con dell’attrezzatura fotografica dall’aeroporto di Juba, che sembra essere altrettanto pericoloso.

Esco dall’aereo e una pista di asfalto sgangherato mi accoglie a 40 gradi. Cammino verso una prima baracca infuocata, tutti dentro, in fila. Primo controllo documenti e certificazioni sanitarie.

Un ufficiale mi strappa davanti agli occhi il mio foglio ben compilato e mi chiede quattro volte quanti anni ho. Me lo richiede una quinta e mi dice di riscrivere tutto per bene. Ti ho beccato amico mio, mi vuoi far perdere la pazienza, ma io sono un elefante e se dentro ti farei sedere su uno sgabello di fichi d’india siciliani fuori sono tutto un “Yes, Sir”.

Raggiungo un’altra fila, controllo passaporti, visto, febbre gialla e ingresso ufficiale nel paese. E’ una stanza enorme, in lamiera, voci, rumori, polizia, gente ammassata, ventilatori inutili e l’unico nastro trasportatore dei bagagli che emette stridii come un branco di uccelli migratori. Sono ultimo della coda, grazie al mio amicone di prima, e inizio a farmela seriamente sotto. Ho portato una marea di attrezzatura e non tutta propriamente dichiarata.

Un angelo, dal controluce cocente oltre gli ufficiali, mi viene incontro, mi chiede se mi chiamo Mauro e mi mette al collo come una medaglia alla bocciofila di Pinerolo un cordino blu, con attaccato un badge, blu. Ecco l’oggetto dei desideri, il mio UN Id. Guarda, c’è la mia faccina stampata sopra. Divento più alto di sei centimetri in pochi secondi. Sono alto quasi come loro. Il mio angelo se ne va e mi dice, occhio, stai calmo e andrà tutto bene. In effetti è così, esco velocemente, mi controllano i bagagli e va tutto ok. Forse gli piace la Sony più delle altre marche altrimenti non me lo spiego.

Usciamo. Lo schiaffo in faccia di una strada in terra rossa, calore, odore, gente. Un parcheggio di terra dall’altro lato della strada. Qualche metro e quella fotografia che hai in testa si sviluppa davanti ai tuoi occhi. E’ bianca, una Toyota LandCruiser con un’antenna enorme su cofano e una smisurata scritta blu sulle fiancate, due lettere che mi fanno tremare: “UN”.

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