Day 6. Kiev – Rivne

Day 6. Kiev – Rivne

Day 6 – Kiev – Rivne Timor mi aspetta nel ristorante italiano più scic della città, l’ OK Bar. Due piani, arredati quasi con gusto, una terrazza e la cucina a vista. Mi siedo, saluto l’interprete. Subito un pinguino mi fa una domanda spiazzante: “vino, champagne, o MORETTI?” ” Moretti, vecchio, da 66. ” Me la inclina con delicatezza mostrandomi l’etichetta come un barolo del 74, accenno accondiscendete pensando a come la globalizzazione crei spesso dei cortocircuiti sociali. Faccio una battuta: “Ah, Moretti, noi la beviamo sul divano quardando l’Italia ai mondiali”. Nessuno ride. Ok. Passo un’ora a parlare con Timor, è il proprietario del locale e ha uno sguardo impenetrabile, un naso schiacciato lateralmente come quello di un pugile che ne ha viste parecchie da vicino e almeno per i primi quaranta minuti non muove un solo muscolo del corpo, viso incluso. Lentamente si lascia andare: è Crimeo (evvvvvai!) e vive a Kiev da anni. In questo momento gli affari sono in grande calo. I clienti russi non ci sono più, sono scappati tutti con Yanucoviych. I super ricchi ucraini, invece, si fanno vedere in giro e al contrario di quanto si possa pensare in Europa sono anche loro tutti anti-russi. Ma escono sempre meno, sono tesi e stanchi, e non hanno nessuna voglia di fare festa e spendere soldi come prima. Siamo vicino al parlamento e l’aria sa ancora di barricate, fumogeni e sangue. Gli chiedo se gli manca la sua terra (in realtà la Crimea non dovrebbe essere nè ucraina nè russa, ma Tatara per essere proprio precisini…), socchiude leggermente gli occhi sui barbagli del Mar Nero: “Ho un mese di tempo per andare a casa, devo andare a dichiarare che voglio essere ucraino. Se non lo faccio, in automatico divento russo. Stanno distribuendo i passaporti sovietici a tutti.” Bevo un sorso. Affondo l’ultimo fendente prima di tirare fuori la macchina fotografica: ” Timor, chi c’è dietro Maidan?” Si guarda attorno, sorride e parla pianissimo: “Il 30 percento delle persone che partecipano alla rivoluzione sono puri, ci credono, molte persone da tutta l’Ucraina sono venute ad aiutare. Morirebbero per l’indipendenza. Il resto è una macchina oscura, organizzata, militare. Russi.”. Rifletto e capisco l’assurdità della sua idea, che potrebbe avere anche un fondo di verità. Yanucoviych, uomo burattino dei russi a detta di tutti, scontenta la popolazione, la russia alimenta la stessa rivoluzione segretamente per sostituirlo con altro uomo ancora più filorusso o addirittura entrare in campo direttamente per sedare pacificamente le teste calde e fare bella figura. Applausi, dasvidanya Ucraina. Ci lasciamo Kiev alle spalle insieme alle ansie planetarie del noleggio auto, dove le lotte tra le banche e le difese dalle fregature fanno sembrare le guerre uno scherzo. Il sole mi penetra gli occhi, le palpebre cadono per proteggersi, direzione ovest è l’unica cosa che tengo a mente. Guido 280 chilometri, verso Livl, verso l’Ungheria, verso casa. L’orizzonte diventa largo, unica linea di confine oltre la quale c’è l’Europa. Siamo stanchi, siamo in quattro, io Stefano e la nostra fixer Cristina col marito. Ci fermiamo col buio, coi camion addosso, coi parcheggi asfaltati male, rotti dal gelo dell’inverno. Gallina bollita, purè di patate, poche parole e un paio di camionisti che guardano la televisione: russia – invasione – crisi. Non procediamo oltre, ci sono delle stanze da letto sopra il ristorante e le pareti sono perlinate color miele d’acacia. Mi sembrano buoni motivi per non insistere e rompere col rumore delle foglie secche gli stuzzicadenti che mi tengono aperti gli occhi. La stanza è una mansarda a ore, la useremo poche ore, non vi preoccupate. Io e Stefano dobbiamo parlare, due fotografi col cuore grande sono troppi anche per una terra immensa, come mezza europa. E gli abbracci bagnati di vodka da autogrill risolvono più di mille parole. Questi giorni sono una guerra e dobbiamo aiutarci a vicenda, pulirci il fucile, coprirci le spalle. Se uno molla la testa, crolliamo tutti e due. Festeggiamo con Yula, Natasha e Natalya, hanno una media di 58 anni e non capiamo perché sono vestite così sgargianti in una notte così buia. È nel momento in cui entra il primo camionista ucraino che sommando la sua faccia alla sporcizia infame della nostra stanza capisco il quadro generale. Non c’è molto da fare, semplicemente iniziare con una foto sottobanco, sottobraccio senza il flash e finire a raccontarsi nella lingua dei gesti delle mani le nostre vite, raccogliere le speranze di due prostitute ucraine di un autostrada nel nulla del nord, la steppa d’Europa, che chiedono dell’Italia, di com’è, di come entrarci. E offriamo un altro giro, un’altro scatto, un altro abbraccio sul quale cadono speranze e frontiere. Non venite in Italia, non ce la farete, salite su in Tir, le calze nuove e il vostro sorriso spezzato e andate a nord, verso la Norvegia, la Danimarca e l’Olanda, verso la notte d’inverno che dura per sempre.

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